Stefano

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INTERVISTA SULLA ATTIVITA' SCAUTISTICA MASCHILE IN

SOMALIA

Lo scautismo Italiano nasce a Mogadiscio nell'immediato dopoguerra e proseguirà le sue attività per tutto il decennio dell'Amministrazione Fiduciaria Italiana degli anni '50. Il Riparto ASCI del Mogadiscio 1° fu di esempio anche per la nascita di altre unità scout di nazionalità presenti nel Paese come i Pachistani e gli stessi Somali. Con l'indipendenza del '60 la comunità italiana rientrò in patria e quindi anche l'esperienza scout si chiuse.

E così, quando ancora c’erano gli inglesi, fu fondato il gruppo scout. Sentiamo qualcosa sulla storia del Gruppo

 

 

 

 

 

 

 

I 3 fratelli Sarasino con la madre arrivarono a Mogadiscio nel 1948, raggiungendo il padre che aveva una conceria. I 2 maggiori, Felice ed Alessandro avevano avuto una breve esperienza di scoutismo nel Gruppo Asti 3° e in breve tempo riuscirono a coinvolgere altri giovani nel “Grande Gioco” e nel 1949 furono pronunciate le prime promesse. L’inizio non fu facile perché il vescovo, mons. Filippini, sapeva solo dell’esistenza del GEI, associazione scout di indubbio

Ferruccio Sarasino

valore, ma, per statuto, aconfessionale, e appoggiava l’Azione Cattolica.

Era infatti solo da poco tempo, che la CEI aveva accettato che l’ASCI si rendesse del tutto indipendente dall’ACI. Per poter fare le loro attività gli scout dovettero arrangiarsi, chiedendo ospitalità altrove, cambiando ben 5 sedi prima che il vescovo si ricredesse, rendendosi conto della serietà e dell’impegno del Gruppo e così nel 1951 furono concessi dei locali ed uno spazio aperto in un edificio vicino alla cattedrale, già sede di una officina meccanica gestita dalla Missione. Il gruppo cominciò a crescere, fu aperta una seconda sq., anche perché erano arrivate numerose famiglie di funzionari e militari. Nel 1955 c’erano ben 5 sq. di cui una, nell’altra parrocchia di Mogadiscio, quella del Sacro Cuore. Fu fondato il Clan ed anche aperto un Branco. Il Vicariato, pur nella scarsità di sacerdoti, ci fornì sempre un AE. L’AE che ricordiamo maggiormente fu padre Salvatore Colombo, che divenne poi vescovo di Mogadiscio, che abbiamo visto in una delle foro delle promesse delle guide, e che fu assassinato nel 1989.

In occasione della festa del Corpus Domini avevamo l’onore di aprire la processione.

Eravamo l’unica associazione giovanile italiana esistente in Somalia e anche l’AFIS riconobbe il valore del nostro lavoro, fornendoci tutte le attrezzature necessarie per fare i campi ed i camion, non solo per i campi, ma anche quando per andare in Kenya all’”Asante Rally” per il centenario della nascita di BP.

In Italia lo scoutismo non aveva certo la rilevanza che ha assunto dopo gli anni 70’, eppure, dopo un mese dall’insediamento, l’ambasciatore Fornari, capo dell’AFIS ricevette in forma ufficiale gli scout. In occasione del campo di Belet Uen nel 1954, fummo ricevuti dal comandante del presidio militare nel paese.

Non ci limitammo a fare dello scoutismo, ma fondammo anche il “Centro sportivo San Giorgio” che partecipò con onore a tante manifestazioni per alcuni anni.

Non solo la comunità italiana aveva fiducia negli scout, ma anche quella pakistana e quella somala. Nel 1955 fu fondato un riparto di scout pakistani e nella foto si vede proprio il loro capo che

pronuncia la promessa dinanzi al nostro capo. Furono fatte insieme alcune uscite e parteciparono all’ultimo campo fatto, a Giohar nel 1959.

L’Associazione Scout Somali fu fondata nel 1956 e alcuni di essi parteciparono anche al successivo campo di Brava.

Purtroppo sia l’associazione pakistana e sia quella somala ebbero vita breve ed infatti nel 1963, con il colpo di stato di Siad Barre scomparvero.

 

Sentiamo adesso cosa avete da dirci di queste attività, sia educative e sia sportive

 

 

 

 

 

 

 

Avevo 18 anni, nel 1955, quando il Capo decise di aprire il Branco e mi affidò l’incarico mettendomi in mano i libri perché mi preparassi a questo nuovo servizio. Non avevo certo la possibilità di venire in Italia per prepararmi! Cominciai con 1 sestiglia, poi se ne aggiunse un’altra. Facevamo le nostre riunioni in sede, ma anche alcune cacce, di cui una memorabile in bicicletta. Non c’era la possibilità di fare le Vacanze di Branco, sia perché eravamo pochi e sia perché non

Carlo Brufatto

esistevano ambienti come missioni o case ad una distanza accettabile. L’esistenza del Branco Mogadiscio I fu riconosciuta con l’invio, da parte del Centrale del totem nel 1957. Nello stesso anno tornai in Italia per studiare e divenne Akela Ferruccio, che portò il branco in visita al campo scout di Belet Uen nel 1958. poco dopo, per la partenza di numerose famiglie, il branco fu chiuso. 

Il clan si era formato già nel 1954 – 55, man mano che i primi ragazzi erano cresciuti, ma non fu mai molto numeroso, 5 – 6 persone al massimo, e, a parte le riunioni serali, non face grandi attività particolari, limitandosi ad essere di supporto alle altre unità. D’altra parte era quello gli anni in cui, anche in Italia il roverismo stava individuando la sua strada, dandosi  proprie metodologia e spiritualità. L’unica impresa di un certo rilievo che il clan fece, fu il ripristino del cippo di Lafolè di cui parleremo in seguito.

Alcuni rover furono il nucleo portante del “Centro sportivo San Giorgio”, nato nel 1953, che si impegnò con un certo successo in diverse discipline sportive, quali il basket, la boxe, il ciclismo gareggiando, nei campionati della Somalia, con altre squadre di italiani, quali quella della “Mogadiscio”, composta da civili e quelle dei Carabinieri, dell’Esercito, della Marina, dell’Aeronautica.

La squadra giovanile di basket si trovò a gareggiare e a vincere contro quella del Liceo, con i conseguenti  rimproveri da parte del preside, agli scout.

I risultati furono più che lusinghieri, considerato che i giocatori erano quasi tutti scout.

Nel 1955 vinsi il campionato somalo di ciclismo e la squadra senior di basket vinse la coppa san Giorgio, messa in palio dalla stessa società, con un finale spettacolare.

Per dare un’idea di quale fosse la considerazione in cui erano tenuti gli scout in particolare, ma anche il “Centro Sportivo San Giorgio”, ricordo solo che, quando fu inaugurato lo stadio del CONI, la cerimonia dell’alza bandiera fu affidata agli scouts.

Ma la vera particolarità di questo esempio di scoutismo, forse unico, era che noi ragazzi giocavamo per dare testimonianza della nostra adesione ai principi di lealtà e di confronto amichevole, che erano alla base della educazione scout, insegnata e vissuta dai nostri capi. Non c’erano certo premi partita o ricompense ai alcun genere, come ci si augura che avvenga anche oggi negli incontri giovanili, ma qui si trattava di un vero campionato “nazionale”.

Raccontateci qualcosa sulle vostre attività. Potevate fare attività all’aperto o c’erano problemi di sicurezza, come in Eritrea?

 

 

 

Come ho scritto nel libro, quando si arrivava al campo, per prima cosa i rover scendevano dal camion, piantavano nella sabbia una decina di “code di porco” (pali di ferro, di uso militare, lunghi circa m 2,5, ritorti a formare 5 anelli e l’estremità inferiore piegata a spirale per avvitarla nella sabbia, passavano in un anello un filo elettrico sottile e questa recinzione era sufficiente a tenere lontane le persone che accorrevano incuriosite al nostro arrivo. Ugualmente alla partenza, noi scout

Carlo D'Argenzio

salivamo sul camion, i rover spiantavano le “code di porco” e si ripartiva, mentre i somali invadevano il terreno alla ricerca di qualunque cosa potesse loro servire.

Si metteva così in pratica uno dei più noti suggerimenti di BP: “quando partite lasciate dietro di voi 2 cose:   1° nulla,   2° i ringraziamenti del proprietario.”

C’era una cosa che, se vogliamo, poteva rientrare tra le misure di sicurezza ed era la guardia notturna di 2 ore, a coppie sfalsate, in modo che uno fosse un po’ meno assonnato dell’altro ma più che altro doveva servire ad evitare sorprese da parte degli animali selvatici, come iene, sciacalli e, a Belet Uen i leoni o a Giohar gli ippopotami. Quando si poteva avere un fuoco, si passava il tempo prendendo a colpi di panga (machete) gli scorpioni e le tarantole.

E poi ci fu la volta che a Giohar dovemmo fuggire su un baobab, mentre erano in visita i lupetti, perché un ippopotamo decise di uscire dal fiume e fu inseguito dagli indigeni che volevano spingerlo verso una trappola per poi mangiarselo.

Tra le tante tecniche scout, quali erano le più usate e quali difficoltà c’erano nel praticarle?

 

 

 

 

 

 

 

Le condizioni ambientali non consentivano di fare alcune cose che sono tipiche dello scoutismo. Ad esempio non abbiamo mai avuto la possibilità di abbattere un albero, perché non c’erano. Le uniche piante di una certa altezza erano casuarine, delle conifere con gli aghi di un color verde molto smorto, le acacie ombrellifere dalla chioma molto fitta ma spessa pochi decimetri e le palme ma come sa chi si intende di piante, le palme sono grosse piante erbacee con un tronco molto poco resistente. C’erano anche alcuni baobab, ma sfido chiunque a abbattere un tronco di 5 – 6 metri di diametro con un’accetta!

Ciò non toglie che eravamo esperti di pionieristica, perché ogni scout aveva in dotazione un bastone scout e con quelli abbiamo costruito dei ponti e degli alzabandiera, come la copia, in formato ridotto, di quella che fu costruita dal contingente italiano al Jamboree di Niagara Falls nel 1955. Qualche rara volta si riusciva a trovare qualche palo e così costruivamo un ponte un po’ più  lungo. Eravamo diventati anche esperti di topografia, non certo della lettura delle carte, perché non ce ne erano, ma era piacevole fare i percorsi all’azimuth nella piatta savana, ben più facile che non in mezzo.

Altra tecnica molto praticata era la segnalazione, sia con l’alfabeto morse e sia con quello semaforico, come si vede nella foto della copertina del libro.

 Voi giovani, sapete quale sia l’alfabeto semaforico? Se avete presenti i film sulle battaglie navali della II guerra mondiale, ricorderete quei marinai che si sbracciavano con le bandierine. È un sistema molto più rapido e preciso che non il morse, che infatti è stato creato per le trasmissioni radio.

Eravamo invece esperti di scorpioni, tarantole e termiti da cui dovevamo guardarci nei campi. Nei campi lungo l’Uebi Scebeli abbiamo visto dei coccodrilli, o per meglio dire, vedevamo passare nel fiume 3 puntini appena affioranti: erano gli occhi e le narici dei coccodrilli in caccia.

In una tecnica particolare in cui gli scout di adesso non potranno mai esercitarsi fu quella di progettare e realizzare tende con i teli tenda militari. Ogni scout ne aveva in dotazione uno, con 4 montanti, 2 cordini  e 2 picchetti e ci sbizzarrivamo a inventare le tende più diverse nelle uscite, ma anche nei campi per il magazzino, i gabinetti e quant’altro potesse servire. Il massimo fu il montaggio, nel campo di Merca, di una tenda mensa. Furono abbottonati 16 teli (4x4) per il tetto ed altri 16 per

formare una intercapedine e far circolare l’aria. Usammo perciò 32 teli, 125 montanti e 16 tiranti.  Il lavoro più faticoso fu quello di far passare un cordino all’interno dei montanti per evitare che il vento dall’oceano, alzando i teli, li facesse staccare e cadere.

Qualcosa di particolare sui campi estivi,

 

 

 

 

 

 

I campi duravano circa 3 settimane, ma era l’unica occasione per fare un po’ di vacanza lontano da casa. Nei vostri campi le sq. hanno una loro autonomia, la cui prima prova è la cucina di sq. ma da noi era impossibile, sia perché eravamo molto pochi, al massimo una ventina, ma soprattutto perché non c’era legna da sprecare. Solo a Belet Uen avevamo montagne di foglie di palma da bruciare, ma negli altri campi la legna andava comprata dai beduini che la portavano a dorso di cammello e che ci vendevano anche il latte di cammella affumicato. Tutti i ragazzi avevano un loro incarico nella gestione del campo. Un anno io ebbi l’incarico di postino e tutte le mattine, con il cambusiere ci facevamo 4 km fino al paese più vicino. Quello fu l’unico anno in cui fu possibile fare la spesa regolarmente. Negli altri campi dovevamo portarci tutto da casa ed addirittura a Brava il turno di guardia delle 3, ogni 3 giorni aveva l’incarico di accendere il fuoco per cuocere nel forno il pane. Fu un campo di lusso, perché gli altri anni potevamo mangiare solo pane tostato portato da casa. Anche per l’acqua era un problema, non si poteva mica fare il bagno nel fiume, per colpa dei coccodrilli, ma la si poteva bere dopo averla filtrata con degli apparati anch’essi datici dall’esercito, oppure a turno si andava a prenderla camminando sulla sabbia a piedi nudi, con dei serbatoi di alluminio da 15 litri sulle spalle che per fortuna avevano un rubinetto e così ogni tanto ci fermavamo, mettevamo i piedi sotto un filo d’acqua e potevamo fare un altro po’ di strada. In parte il problema fu risolto scavando un pozzo profondo circa 3 metri nella sabbia. Sapevamo che l’acqua c’era perché le palme crescono solo dove c’è dell’acqua a poca profondità.

Fino al 1957 gli scout dormivano in tende canadesine, ognuno la propria, ma erano molto basse. Non si poteva dormire per terra, non perché la sabbia fosse dura, ma perché le termiti avrebbero mangiato tutto e allora si faceva così: si scavava una buca, profonda 40 – 50 cm grande un po’ meno della tenda, ci si metteva la brandina con le zampe infilate in scatolette vuote di tonno con dentro del petrolio. L’anno dopo usammo come tende di sq. delle tende lasciate dall’esrecito inglese che pesavano 180 libre, cioè circa 90 kg.

 

Gli scout italiani dell’Egitto hanno partecipato al Jamboree e sono venuti in Italia per l’anno santo del 1950. Avete partecipato a qualche incontro all’estero?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Intanto diciamo che il viaggio dall’Egitto all’Italia in nave dura circa 2 giorni, mentre dalla Somalia ne servivano 8, e poi la comunità italiana in Egitto aveva mediamente delle disponibilità economiche ben maggiori delle nostre. Noi potemmo partecipare a Nyeri in Kenya solo ad un incontro internazionale che, per il suo significato simbolico è pari al Jamboree, all’”Asante Rally”,. Asante in lingua swahili significa grazie e infatti fu indetto in occasione del centenario della nascita di BP, 22 febbraio 1857.

Ferruccio Sarasino

Eravamo una ventina, tra italiani e somali e partimmo il 16 febbraio. Gli studenti saltarono le ultime 2 settimane di scuola (l’anno scolastico cominciava a luglio), viaggiammo su un camion seduti sul carico che arrivava fino all’orlo delle sponde, appoggiati alle tende che era in mezzo. Ci vollero 3 giorni, in mezzo alla savana, tra branchi di giraffe, struzzi, marabù. A Nairobi, ad oltre mille metri di quota, dovemmo indossare i maglioni che ci eravamo fatti fare apposta e l’indomani mattina fummo ricevuti dal Sindaco a cui demmo un regalo da parte del sindaco di Mogadiscio e qui vedemmo per la prima volta un ruscelletto di montagna. Volevamo fare il bagno ma fuggimmo per il freddo. L’indomani proseguimmo per Nyeri dove montammo le nostre 5 tende in un campo da calcio, insieme a centinaia di altri scout. C’erano inglesi, kenioti, indiani con il turbante, goani (indiani di Goa, cristiani), sudafricani bianchi e neri e noi eravamo gli unici non appartenenti al Commowealth. L’indomani ci fu la cerimonia dinanzi alla tomba di BP con la sfilata di tutti i contingenti.  

La domenica tutti icattolici si ritrovarono per la Messa, in latino perché si era prima del concilio Vaticano II, ma con canti di tutte le lingue. Poi risalimmo in camion e facemmo un giro intorno al monte Kenya che è alto più di 5 mila metri ed ha anche un piccolo ghiacciaio. Passammo per Nanyuki dove è sepolto il duca d’Aosta che resistette per più di un mese all’assalto delle truppe inglesi sull’Amba Alagi, tanto valorosamente che gli inglesi concessero agli italiani l’onore delle armi quando dovettero arrendersi, e morì poi in prigionia. La missione della Consolata di   Nanyuki, con fondi raccolti anche in Somalia, aveva da poco terminato di  costruire un ossario che riunisce le salme di tutti i soldati italiani morti in Kenya. Tornammo a Nairobi, ospiti di una casetta della missione cattolica e andammo anche a visitare la base degli scout kenioti. E poi altri 3 giorni di viaggio.

Nel 58’ con il famoso camioncino “austin”, la macchina del capo, 5 di noi andammo a Nairobi per partecipare al campo scuola per il conseguimento del brevetto internazionale di capo, il Wood Badge. È stata veramente un’esperienza unica, trovarsi con capi di diversa origine, con esperienze diverse, ma accomunati dall’entusiasmo di praticare lo scoutismo. Prima di tornare facemmo un giro fino alla Rift Valley, la grande frattura tettonica che sta separando l’Africa orientale dal resto del continente e che ospita numerosi laghi salati.

Nel 59 altre tre persone tornarono a Nairobi e il giro turistico si spinse fino al Tanganika. Il ritorno fu movimentato dalle ripetute avarie alla macchina. Considerando lo stato delle strade, tutte piste di sabbia, è come se un capo decidesse, partendo da Treviso, di frequentare un campo scuola a Mosca e poi facesse un giro sul Caucaso. Bisognava avere proprio un grande amore per lo scoutismo per fare una cosa del genere.

Al secondo viaggio partecipò Bashir, un capo somalo che anni dopo, diventò un colonnello dell’esercito, seguace di Siad Barre, il dittatore che diede il via alle successive disastrose evoluzioni della Somalia.

 

Gli scout del Cairo hanno sistemato il campo di battaglia di El Alamein, voi avete fatto qualcosa del genere?

 

 

 

 

In fondo, noi eravamo degli emigranti, di tipo un po’ particolare, perché fino al 50’, quando c’erano gli inglesi, eravamo gli ex padroni di casa sconfitti e dopo il 50’ sapevamo che, pur essendoci un’amministrazione italiana, eravamo ormai degli ospiti che con il passare del tempo erano sempre meno graditi. Non c’era più l’atteggiamento del colonialista, venuto per sfruttare la popolazione locale, ma quello di chi ha lasciato il suo paese cercando di stare un po’ meglio di quanto non stesse in Patria.

Franco Pagura

E proprio il sentir parlare in famiglia dell’Italia, il sentire la sera Radio Roma, il ricevere, una volta alla settimana i giornali e la posta, ci faceva sentire molto legati al nostro paese di cui i più giovani, venuti in Africa da bambini, avevano un vago ricordo.

Questo attaccamento si è concretizzato, ad esempio,

 -     facendo una colletta, nel '51  per aiutare gli alluvionati del Polesine. Alla raccolta contribuirono anche alcuni somali ed alcuni indiani.

 -      costruendo nel 1949 più di 30 croci di legno da porre nel cimitero di Mogadiscio sulle tombe senza nome, di soldati italiani,

 -      andando a Nanyuki, come abbiamo detto, alla tomba del duca d’Aosta e dei suoi soldati,

 -     e poi, nel 57’, l’unica vera impresa fatta dal Clan, la ricerca prima e la sistemazione poi di un cippo a Lafolè, posto in ricordo dell’eccidio, nel 1896, di numerosi soldati italiani, al comando del capitano Antonio Cecchi, già console italiano a Zanzibar. La sua testa, issata su una lancia, fu portata a Mogadiscio dagli assassini e mostrata alla popolazione.

Quando è stato sciolto il gruppo di Mogadiscio?

 

 

Tra il 58’ e il 59’, ormai verso la fine del mandato dell’AFIS, buona parte delle famiglie italiane era partita e infatti l’ultimo campo fu fatto nel 59’, insieme agli scout pakistani a Giohar. Si tirò avanti, sempre in meno finché, con l’indipendenza e la totale “somalizzazione” degli impieghi pubblici, ma soprattutto con il diffondersi delle ideologie ispirate dal nascente nazionalismo arabo si diffuse l’odio verso tutti gli europei ed i cristiani e infine nel 1963, con la partenza di quasi tutti gli italiani, il gruppo si ritrovò, nel giro di poche settimane, ridotto ai soli capi che, anche essi, dopo poco tempo rimpatriarono. La sede fu devastata e tutte le attrezzature predate. 

Gli scout che, tornati in Italia hanno continuato a fare scoutismo, come si sono trovati?

 

 

 

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Non è stato facile inserirsi in un mondo di cui avevamo tanto sentito parlare, ma anche se aiutati dalle nostre famiglie, le differenze climatiche e ambientali sono state difficili da accettare. Ad esempio noi non eravamo abituati alle variazioni stagionali della durata del dì o al freddo. Non mi è stato difficile, a parte le differenze ambientali, inserirmi in un gruppo scout e questo è, secondo me, il merito più grande che va tributato ai Capi del Mogadiscio I.

Carlo D'Argenzio

Pur senza avere alle spalle una lunga e consolidata esperienza e tradizione scout, sono riusciti ad educarci secondo i migliori dettami del metodo scout. E sono capitato, semplicemente perché era il più vicino a casa mia, in un gruppo tra i migliori di Roma, fondato da Salvatore Salvatori, praticamente la persona che, per i suoi elevatissimi impegni nell’Azione Cattolica italiana, era riuscito a convincere la CEI che l’ASCI meritava una autonomia ed un riconoscimento specifico del suo metodo educativo.

Pur avendo praticato tante tecniche, come abbiamo visto, è stato necessario reimparare tante cose, dal riconoscere la Stella Polare (da noi c’era la Croce del Sud), all’orientarsi nei boschi, a tagliare gli alberi, a camminare in montagna, e tante altre cose.